I progressi tecnologici nell’ambito della biologia e della genetica e il costante sviluppo delle ricerche scientifiche nel contesto dello studio genomico hanno permesso, soprattutto negli ultimi trenta anni, l’implementazione di tecniche di diagnosi prenatale in grado di individuare un ampio spettro di potenziali problematiche di carattere genetico collegate al feto. Le evoluzioni di carattere scientifico e tecnico, in questo ambito, hanno consentito lo sviluppo di una molteplicità di procedure con caratteristiche e modalità di indagine diverse. In questo senso è possibile, sotto un profilo generale, distinguere fra le tecniche di diagnosi prenatale invasive e i test prenatali non invasivi, anche detti NIPT. Fra le prime figurano, ad esempio, l’amniocentesi, la villocentesi, l’embrioscopia e la biopsia fetale. I principali test prenatali non invasivi, invece, sono rappresentati dalla ricerca delle cellule e del DNA fetale nel sangue materno e nella cervice uterina.
Le principali distinzioni fra tecniche invasive e tecniche non invasive
Lo sviluppo dei test prenatali non invasivi è successivo nel tempo rispetto a quello delle diagnosi prenatali invasive. Queste ultime, in particolare, non sono prive di rischi per il feto: procedure come l’amniocentesi o la villocentesi, ad esempio, presentano, sebbene come remota possibilità, un rischio di aborto, seppur minimo a livello statistico. Questi rischi sono, in particolare, correlati alla natura delle tecniche stesse, all’epoca gestionale nella quale sono eseguite e all’età della gestante. I prelievi connessi alle tecniche invasive, inoltre, possono determinare una trasfusione feto-materna esponendo la donna Rh negativa portatrice di un feto Rh positivo a un rischio di sensibilizzazione. Non è escluso, inoltre, che tale procedure possano agevolare la trasmissione di un’infezione dalla madre al feto. In particolare, uno studio scientifico ha messo in evidenza come l’amniocentesi, che consiste nel prelievo del liquido amniotico nel quale sono presenti le cellule del feto, se effettuata precocemente, ossia durante il primo trimestre di gravidanza, può comportare un rischio di perdita fetale del 2% in più rispetto a quella eseguita nel secondo trimestre di gravidanza. Un’altra ricerca condotta nel Regno Unito ha messo in rilievo come la perdita fetale correlata a questa tecnica sia pari all’1% dei casi. La villocentesi, che consente il prelievo del trofoblasto attraverso una puntura transaddominale sotto controllo ecografico, presenta un rischio di aborto parti a circa al 2%. I NIPT, invece, consentono di acquisire correttamente informazioni sul feto e sull’ambiente materno senza interferire con essi e si estrinsecano attraverso una procedura del tutto priva di rischi che prevede un prelievo del sangue materno.
Le linee guida sui test prenatali non invasivi
L’ampia diffusione, soprattutto nell’ultimo decennio, dei NIPT ha portato il Ministero della Salute nel 2015 alla definizione di un testo che predispone le “Linee guida per lo screening prenatale non invasivo basato sul DNA”. Il documento, redatto con la supervisione del Consiglio Superiore di Sanità, procede alla definizione dei test prenatali non invasivi e delle loro peculiarità: “Lo screening prenatale non invasivo non è un test diagnostico. Il test verifica la possibilità che il feto sia affetto dalle più comuni aneuploidie. I NIPT definiscono, su base probabilistica, la presenza nel feto di una specifica patologia indagata”. Una definizione che non esclude la necessità di una conferma dei risultati dello screening con una successiva procedura invasiva tradizionale. I test prenatali non invasivi, dunque, non sostituiscono altre indagini cliniche che normalmente rappresentano una parte integrante del processo di monitoraggio della gravidanza.
L’oggetto dello screening
I test prenatali non invasivi vengono generalmente utilizzati per lo studio della presenza di alcune patologie che possono interessare il feto. Questi screening sono finalizzati all’analisi del DNA libero presente nel sangue materno che, decorso un certo periodo dall’inizio della gestazione, contiene anche una frazione di DNA proveniente dalla placenta del feto (si parla in questo caso di “cell free fretal DNA o cffDNA). Questi test sono eseguiti a partire dalla decima settimana di gravidanza, lasso di tempo dal quale è possibile rinvenire tracce del DNA del feto nel sangue materno. I test su DNA libero in sangue utilizzano le ultime tecnologie di sequenziazione con il fine di poter effettuare un’analisi sul DNA fetale rispetto al DNA materno, per rilevare determinate anomalie con estrema precisione e affidabilità.
Come funzionano i NIPT
Nel corso della gestazione il ricambio di cellule che si verifica a livello del trofoblasto ha come conseguenza il rilascio di DNA fetale nel flusso ematico materno. Queste “tracce generiche” iniziano ad avere concentrazioni di rilievo fin dalla quinta settimana di gravidanza (in una percentuale fra il 2 e il 40%, mediamente intorno al 10%), ma soltanto dopo la decima settimana sono presenti in un quantitativo sufficiente per essere oggetto di un’analisi adeguata finalizzata a rilevare l’eventuale presenza di aneuploidie. Per l’esame in questione è necessario il prelievo di circa 20 ml di sangue materno. Il tempo medio di attesa per i risultati è di circa 3 giorni lavorativi. Ai fini di questa analisi è necessario che la percentuale di DNA fetale libero nel sangue materno sia almeno del 4%.
Cosa viene analizzato mediante i test prenatali non invasivi
I test sul DNA libero nel sangue materno hanno lo scopo di rilevare la presenza di anomali relative al numero di cromosomi, quindi la Trisomia 21 (Sindrome di Down), la Trisomia 21 (Sindrome di Edwards) e la Trisomia 14 (Sindrome di Patau). I NIPT, inoltre, consentono anche l’analisi di eventuali anomalie del numero dei cromosomi sessuali che possono avere come conseguenza patologie come la Sindrome di Turner, quella di Jacobs e quella di Klinefelter. Questi screening, anche se con un grado di accuratezza minore, consentono di valutare anche la presenza di microdelezioni, cioè le ipotesi di mancanza di frammenti del cromosoma stesso collegata alle sindromi di DiGeorge, Cri-du-Chat e Prader-Willi.
L’importanza di queste tecniche in riferimento alle anomalie cromosomiche
I test prenatali non invasivi nel corso del tempo hanno assunto una sempre maggiore diffusione e richiesta perché in continenti come l’Europa le anomalie cromosomiche rappresentano circa il 15% delle anomalie congenite diagnosticate in un periodo antecedente al compimento del primo anno di età. Queste patologie, inoltre, sono associate al 25% dei decessi perinatali. Secondo una recente statistica dell’Istituto Superiore di Sanità nel triennio fra il 2004 e il 2007 sono stati rilevati 7.894 casi di malformazioni congenite. I difetti congeniti, da questo punto di vista, sono riferiti a 5.628 nati vivi a 2.217 aborti indotti e a 49 morti fetali. Secondo l’ISS, inoltre, le anomalie congenite si presentano in una percentuale di circa 25 casi ogni 10.000 abitanti. Il test è particolarmente raccomandato per le donne ad elevato rischio di anomalie cromosomiche dopo lo screening del primo trimestre o che, in precedenza, abbiano portato avanti una gravidanza con Sindrome di Down.
La differenza fra i NIPT e gli screening tradizionali del siero
I NIPT, pur non essendo dei test diagnostici, ma degli screening di carattere generale hanno un grado di specificità e sensibilità elevatissimo, superiore al 99%. Questi test prenatali non invasivi offrono, quindi, maggiori garanzie rispetto a metodi tradizionali di screening del siero perché sono in grado di fornire percentuali più elevate di rilevamento della sindrome di Down e al tempo stesso presentano una minore percentuale di falsi positivi.
Per una sicurezza a 360°: il Test Genetico Preimpianto
Per uno screening globale che possa consentire alla coppia che fa ricorso alla fecondazione assistita una sicurezza a 360°, i NIPT possono essere accompagnati dal Test Genetico Preimpianto, una procedura di procreazione assistita diretta a prevenire la trasmissione alla prole di malattie gravi correlate ad alterazioni genetiche e cromosomiche. IVI è la realtà leader a livello mondiale per questa tecnica, alla quale ha dedicato un intero laboratorio nel quale ogni caso viene affrontato attraverso un trattamento personalizzato. Un impegno che nel 2006 ha consentito il raggiungimento di un traguardo storico: i nostri specialisti per primi hanno consentito a una coppia portatrice di linfoistiocitosi di avere un bambino sano.
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